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Tre sfigati in Svezia, prima tappa Amburgo

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Tre sfigati in Svezia, seconda tappa Copenaghen
Tre sfigati in Svezia - III parte

LA DECISIONE

Negli spensierati ma ancor morigerati anni 60 certi papà di certi “figli di papà” viziavano sì loro eredi, ma non più di tanto; correva infatti l’anno 1965 quando “Mastino” (amico e compagno di studi), visti i brillanti risultati conseguiti nei primi esami universitari, ebbe in premio dal padre - facoltoso industriale, non “imprenditore” come s’usa dire ai nostri giorni, quando anche i “vu’ cumprà” sono definiti imprenditori - una “Simca 1000” azzurro metallizzata con i soliti, infuocati sedili in Skai nero e autoradio “Voxon” a ricerca automatica elettromeccanica.  

In pratica il marchingegno funzionava così: si premeva un pulsante, l’apparecchio si metteva a ronzare e si vedeva un indice rosso scorrere lungo la scala analogica fermandosi laddove la sintonia trovava una stazione sufficientemente forte. Peccato non ci fosse granché da scegliere: in AM si captavano i programmi del primo, secondo e terzo programma RAI, in FM invece, pure (le radio indipendenti erano ancora di là da venire); le onde corte c’erano ma era come se non ci fossero, e sfido chicchessia a captare le onde corte con un’autoradio.

Le audiocassette, poi, erano agli albori e i costruttori d’autoradio non avevano ancora pensato al mangianastri, però secondo Mastino il “Voxon” era comunque una ficata tant’è vero che - poco dopo gli eventi sotto narrati - glielo fregarono; del resto il prezzo dell’apparecchio era pari a circa il 20% di quello della vettura, per cui rubare un simile “gioiello” fu piuttosto redditizio per il ladruncolo.  Ma non divaghiamo.

Per festeggiare il dono, una sera io e Mastino ci trovammo davanti a due monumentali “Forst” ghiacciate; un bel momento Mastino propose:
“Perché non ci facciamo un viaggetto in Svezia?”
“Con La Simca?”
“E perché no?”
“E perché proprio in Svezia?”
“Perché sembra che lì ci sia...

ehm, da ravanare.” rispose Mastino con fare allusivo.
 
Dovete sapere che in quegli anni, nel Bel Paese, circolavano piccanti leggende metropolitane circa l’avvenenza e la disponibilità delle ragazze svedesi, ma si trattava più che altro di storie messe in giro da tamarri (ce n’erano anche allora, e mica pochi, solo che guidavano la “Vespa 150 GS” invece della “Golf” nera usata; adesso saranno finiti in casa di riposo o sotto una lapide); questi bei tomi - dopo le ferie a Riccione o a Jesolo o a San Benedetto del Tronto - bisbigliavano d’aver sentito dire da uno, il quale bisbigliava d’aver sentito dire da un altro, il quale bisbigliava d’aver sentito dire da un terzo...

Adesso - nel corso dei miei itinerari europei - mi capita d’incontrare delle turiste svedesi più o meno coetanee e, se penso che quelle femmine contro ogni tentazione sono quanto rimane delle mitiche svedesi anni 60, sono tentato da lugubri progetti suicidi; per fortuna un paio di “Nardini Riserva” bastano a confortarmi.

Comunque la ghiotta prospettiva mi convinse per cui - ingollata la “Forst” e ordinato un altro giro - ribattei:
“Si può fare.” Per dividere la spesa, Mastino decise d’aggregare l’amico “Patata”, uno che stravedeva per la “gnocca”, ma si trattava di tanto fumo e poco arrosto; comunque Patata si specializzò - guarda caso - in ginecologia diventando primario in non so più che ospedale. Non lo incontro da una vita ma sono pronto a scommettere che, anche se ne ha vista tanta per via della professione, non ha perso il “vizietto”.

I PREPARATIVI

Il mio bagaglio consisteva in:
•         jeans e polo scura (che indossai per quasi tutto il viaggio),
•         camiciotto simil-militare da alternare alla polo, 
•         maglione,
•         piumotto da sci (si sa: a quelle latitudini il solleone se lo sognano),
•         qualche canottiera da sotto,
•         qualche atroce mutanda “basket” ascellare con spacco anteriore,
•         qualche paio di calzini in “Terital” color topo che mi procuravano un fastidioso prurito alla caviglie,
•         costume da bagno,
•         cianfrusaglie assortite.

In più, siccome non si poteva mai sapere e perché all’epoca - visto che il “casual” non l’avevano ancora inventato - la tipica tenuta da fico era la seguente, ficcai in valigia:
•         completo estivo giacca/pantalone color kaki (o cacca, allora andava di moda),
•         camicia bianca con tendicollo brevettato (cos’è il tendicollo? Informarsi),
•         cravatta “regimental” in sintetico.

La mia attrezzatura da campeggio consisteva in:
•       tenda canadese “Pinetina” senza sopratelo né abside, teoricamente una biposto, ma infilandoci la valigia, un paio di rotoli di carta igienica e la “Rolleiflex”, diventava una monoposto (poco male, io tengo alla mia “privacy”),
•         saccopelo modello “mummia”, di quelli che uno ci fa la sauna anche se fuori nevica a cappellate,
•         sgabello da pescatore tuttora in mio possesso, lo uso come poggiapiedi davanti alla tivvù,
•         “Pentola/Filtro” brevettata, originale d’anteguerra, in alluminio e con scolapasta incorporato, molto funzionale, chissà che fine ha fatto,
•         fornellino “Camping-Gaz” a butano.

Niente materassino gonfiabile, l’avevo ma era bucato e in più m’avevano fregato la pompetta; non avendo fondi per ricomprare il tutto mi rassegnai a giacere - come san Francesco - sulla nuda terra per venti lunghe notti; vabbè che la “Pinetina” il fondo ce l’aveva ma era come se non esistesse, però il sacco-mummia era molto soffice e protettivo sicché in qualche modo sopravvissi.

Quanto a Mastino e Patata, s’arrangiarono nella sbrindellata “Morettina” di Mastino che, avendo l’abside, poteva, in qualche modo ospitare due persone più qualche bagaglio; in più era pure fornita di sopratelo, accessorio importante visto il clima che trovammo.

L’attrezzatura dei due era completata da due sedie pieghevoli che minacciavano di sbregarsi ogni volta che uno le apriva e da un tavolinetto nuovo, con il piano rivestito in “Formica” che cominciò a scollarsi appena partiti.

La sera prima della partenza Mastino mi telefonò:
“Allora passiamo a prenderti domani sera. Mi raccomando la chitarra.”
“La chitarra? E per che farne?”
“Così le svedesi capiscono subito che siamo italiani e rimorchiamo alla grande.”
“D’accordo.”

Va precisato che possedevo una vetusta chitarra su cui sapevo si e no strimpellare una mezza dozzina d’accordi con cui accompagnare sgangherate canzonacce goliardiche, però avevo e ho una bella voce baritonale molto intonata (modestia a parte).

Alle diciotto del giorno seguente i due compari erano sotto casa mia. Non so come ma riuscimmo a stipare tutta la mercanzia, un po’ nel bagagliaio anteriore e un po’ nell’abitacolo, al posto del quarto passeggero; la chitarra fu appoggiata, in equilibrio instabile, sulla cappelliera; se stava dritta, attraverso il lunotto non si vedeva un piffero ma tanto si rovesciava sempre sulla capoccia del passeggero posteriore (Patata o il sottoscritto secondo i turni; infatti Mastino guidò per tutto il viaggio).

Debbo aggiungere che facevano parte della mercanzia anche nove bottiglie di vino rosso pregiato, più due taniche da 20 litri che riempimmo d’ottimo Cabernet sfuso, acquistato più tardi in una bettola della Valsugana nota a pochi aficionados.
Talvolta mi capita di pensare che, se oggi vedessero tre tizi combinati com’eravamo noi, gli sbirri ci fermerebbero per accertamenti, ma all’epoca - tra i giovani di buona famiglia - faceva molto trendy viaggiare combinati da pellegrini... E poi noi avevamo una Simca 1000 metallizzata, mica una Fiat 500 color pantegana o una Citroën 2 CV grigia come la maggioranza dei predetti giovani; vuoi mettere la differenza!

Così, alle 18 e 20 partii assieme ai compari e circa 100.000 lirette in saccoccia = 50 € d’oggigiorno; pare impossibile?

Eppure, dopo circa 20 giorni e 7000 km percorsi, avanzai persino qualche spicciolo.

PRIMA TAPPA

Imboccammo la ss “Valsugana”. Da Padova a Trento erano 120 km di budello tortuoso che attraversava un’infinità di paesi e con frequenti saliscendi ma poco male perché allora i TIR erano mosche bianche e il traffico prevalentemente in direzione sud, infatti tale via è e rimane la più diretta dal Brennero verso le spiaggione veneto-friulane; oltretutto, a quei tempi, il Nordest non era ancora “mitico”: niente capannoni, né pizzerie, né discoteche e via dicendo, per cui il traffico locale notturno era assai contenuto. Attualmente la situazione infrastrutturale è migliorata, ma da Padova a Carpanè la vecchia 47 è rimasta una fetecchia di strada, il tutto aggravato dal traffico, aumentato a dismisura.

“Dove pensi di fermarti?” chiese Patata a Mastino dopo un po’.
“Intanto tiriamo avanti, poi si vedrà. Se avete sonno dormite pure, se vi scappa cercate di tenere duro ma soprattutto non rompetemi le palle.” rispose Mastino, evidentemente intenzionato a battere il suo record personale di resistenza alla guida.
Breve fermata poco oltre Bassano - causa pieno di Cabernet - e su fino a Trento; poi Mastino accese il “Voxon” a tutto volume per tenersi sveglio mentre io e Patata tentavamo di dormire.

A Trento l’“Autobrennero” rimaneva ancora tra i sogni nel cassetto, quindi imboccammo la vecchia “Abetone-Brennero”: Bolzano, Vipiteno, confine I-A, Innsbruck, ri-confine A-D, sempre su strada statale con traffico scorrevole nella nostra direzione e asfittico in direzione contraria (Tra i crucchi il turismo di massa, magari a bordo d’una “Isetta”, era già imponente), e da ultimo Rosenheim dove potemmo finalmente entrare in una delle leggendarie “Autobahnen” tedesche!
Secondo gli attuali standard non erano poi granché: due sole corsie per senso di marcia, niente corsia d’emergenza ma solo una banchina laterale, spartitraffico striminzito e privo di guardrail, manto stradale in lastre di calcestruzzo risalente ai tempi di Hitler, motivo per cui le indispensabili giunture tra lastra e latra sottoponevano le sospensioni a un assillante martellamento.

Però le corsie erano separate (In Italia solamente l’“Autosole” era tutta a corsie separate, le altre sedicenti “autostrade” erano prevalentemente a corsia unica e con incroci a raso!), i w.c.

degli autogrill puliti 24 ore su 24 - c’era addirittura il distributore di profilattici, un marchingegno inconcepibile nell’Italietta d’allora - la segnaletica efficiente, la rete già molto estesa, le colonnine di soccorso frequenti, ma soprattutto le “Autobahnen” erano gratuite, e lo sono tuttora!

La notte germanica era calda e opprimente però Mastino resisteva alla grande: avanti... avanti... Monaco, Stoccarda... tutun... tutun... tutun... Fottutissime giunture, finisce che mi scoppia una gomma!... Karlsruhe... Finalmente un albore rosaceo cominciò a tingere l’orizzonte verso est... tutun... tutun...  Mannheim... tutun... tutun... Brevi soste per il pieno (Ehi, Avete visto quanto poco costa? Governo ladro!) e per espletare le funzioni fisiologiche (Aaah, ancora cinque chilometri e mi smerdavo fino al collo)... tutun... tutun... Magonza e finalmente Colonia, dove arrivammo all’una del pomeriggio.
Qui Mastino disse:
“Adesso me le sono proprio rotte.” e si mise a cercare un campeggio.

A COLONIA

Il campeggio c’era ma, almeno a giudicare dai cessi, doveva trattarsi d’un “Konzentrationslager” mai completato causa sconfitta del Terzo Reich e riciclato come struttura turistica, oltretutto a Colonia faceva un caldo asfissiante ma eravamo sfiniti e non ce ne poteva fregare di meno. In cinque minuti piantammo le tende e mangiammo.

Menu del giorno:
•         Ravioli in scatola alla bolognese, prelevati dalla piccola “cambusa” comune, serviti a temperatura ambiente e mangiati direttamente dalla scatola: un’orrida poltiglia color diarrea e speziata all’inverosimile nel vano tentativo di coprire il fetore dei conservanti (N.B. Erano prodotti da una nota industria alimentare ma si rivelarono un clamoroso flop... e te credo!).
•         Bottiglie assortite di corposo vino rosso caldo come la pipì, ad alta gradazione, fortemente strutturato e con retrogusto tannico: l’ideale per un clima come quello.

Quindi ci mettemmo in costume da bagno, sciorinammo i sacchipelo sull’erba e ci buttammo a ronfare con il sole che picchiava spietatamente sui crani.

Dopo tre ore mi destai in preda a un lancinante bruciore di stomaco e con la testa che scoppiava.
Terapia anti bruciore: cucchiaione di bicarbonato sciolto in acqua... Ruuutt... Aaah! Fatto. Terapia anti emicrania: due aspirine, dieci minuti con la capoccia sotto il rubinetto... Aaah! Fatto.

Stessa terapia per i compari: dopo mezz’ora eravamo vispi come furetti e pronti a visitare la metropoli renana.
Meta d’obbligo il famoso duomo gotico dalle imponenti torri, miracolosamente scampato ai bombardamenti. All’uscita Mastino (autonominatosi capo spedizione) si guardò attorno e osservò:
“Qua è ancora tutto bombardato, mi sa che non ci sia più niente da vedere. Che vogliamo fare?”

In realtà, nonostante le ancor numerose tracce di distruzione, a Colonia c’era ben altro da vedere ma non lo sapevamo e non avevamo manco uno straccio di guida, per cui proposi:
“Perché non chiamiamo il Frìttola?”
Nota a margine: il “Frìttola” era un comune amico che, alcuni giorni prima, era venuto a Colonia per seguire un corso estivo di tedesco.

Mastino, che conosce la lingua, lo cercò via telefono (‘Sto maledetto crucco non capisce un beato cazzo!) e, dopo avere sbraitato a lungo con uno della famiglia di cui il Frìttola  era ospite, riuscì a contattarlo. C’incontrammo pertanto con il compare e, non appena seppe che avevamo una discreta scorta di vino, s’offrì di riaccompagnarci in camping; dopo che ci fummo salutati, la scorta aveva subito un vistoso calo giustificato dal fatto che all’epoca il vino tedesco era una troiata (lo è tuttora), costava un frego di soldi e il Frìttola non era certo astemio (e non lo è tuttora).

Prima d’andare a dormire commisi un grosso sbaglio: scrissi e spedii una lettera a una “pen-friend” di Flensburg (cittadina alla frontiera tedesco-danese) ma, a questo punto, è necessaria una spiegazione.

All’epoca era usanza comune tra i giovani iscriversi a un “Pen-friend Club”.

Si trattava di questo: dietro pagamento d’una modesta somma e previa spedizione d’alcuni dati personali, indirizzo e foto, si finiva su un bollettino spedito periodicamente agli iscritti, i quali potevano così corrispondere reciprocamente a mezzo posta: in sostanza i “Pen-friend Club” furono gli antenati delle chat e la cosa funzionava perché le poste funzionavano.

V’era chi s’iscriveva senza secondi fini - per collezionare francobolli esteri o per migliorare la pratica delle lingue - ma i più s’iscrivevano per cercare qualche partner farneticando circa avventure estremamente improbabili. Io e Mastino eravamo iscritti a un “Pen-friend Club” e la pulzella di Flensburg era appunto una della mie corrispondenti, per cui, visto che Flensburg poteva essere inserita nell’itinerario e che la lettera sarebbe arrivata a destinazione prima di noi, le scrissi che avrei gradito incontrarla di persona e se, magari, non avesse per caso qualche amica con cui andare tutti assieme a fare quattro salti... una passeggiata... Insomma i soliti cazzeggiamenti. Fine della spiegazione.

Ma perché scrivere alla “pen-friend” di Flensburg fu uno sbaglio? Leggete più oltre e saprete... Mastino è sempre stato un gran lavoratore ma, quando andava in vacanza, non ne voleva sapere d’alzarsi prima delle 11. Per questo l’indomani alle 10 fui bruscamente destato da Patata che strillava:
“Finocchio pelandrone! Hai deciso di piantare radici in questo cesso di campeggio? Io mi sono già lavato, mi sono rasato, ho urinato e defecato, ho preparato il caffè e tu ancora dormi? Sveglia, cazzone!”

Dopo dieci minuti di strepiti udii Mastino biascicare:
“Calma stronzo! Adesso mi alzo... E piantala di prendermi a cazzotti le palle!”
Fortunatamente Mastino era avvolto nel saccopelo, altrimenti i suoi “gioielli” avrebbero veramente corso gravi rischi; comunque alla fine uscì dalla “Morettina” scaccolandosi e accendendo la prima delle 40 sigarette giornaliere che fuma tuttora, per cui potemmo tenere consiglio onde programmare la giornata.

“Stasera arriviamo ad Amburgo.” decretò Mastino.
“Perché proprio ad Amburgo?” domandò Patata.
“Perché ad Amburgo ci sono certi localini in cui fanno certi spettacolini e io voglio vederne almeno uno.

Obiezioni?”
Ovviamente no.

AD AMBURGO

Sul far della sera eravamo nella metropoli anseatica; colà trovammo alloggio in una pensioncina per “Gastarbeiter” gestita da una vecchia decrepita e sita all’ottavo piano d’un palazzone prospettante una strada trafficatissima e rumorosa e, siccome anche lì faceva un caldo bestiale, fummo costretti a tenere le finestre spalancate. Ma le lusinghe della notte amburghese ci attendevano...

Uscimmo quindi in giacca e cravatta con destinazione “quartieri del vizio”. Dapprima visitammo la famosa strada delle ragazze in vetrina ma, più che di puttanieri, la strada pullulava di turisti nipponici che - famiglia al seguito - fotografavano a rotta di collo.

Successivamente sbucammo sulla celebre “Reeperbahn” dove i summenzionati localini non mancavano; peccato che attorno ai relativi ingressi ronzassero nugoli di ceffi poco rassicuranti, oltre che di femmine piuttosto disinibite. Noi tre - studentelli d’una piccola città della profonda e bigotta provincia veneta - provammo quasi un senso di smarrimento; stavamo per rinunciare quando un “buttadentro” dall’accento meneghino ci apostrofò:

“Uèi voi! Italiani, vero ragazzi? T’el chì l’ambient’ che fa per voi... Dai, entrate, vi vedete qualche bel numerino, vi bevete una birrètta, vi divertite e spendete no una cifra.” Il buttadentro era un tipo gioviale per cui aderimmo al suo invito, ci sistemammo in un separé, ordinammo le birre e ci accingemmo a vedere il “floor-show” (allora si chiamava così). Mentre una spilungona sexy come un traliccio ENEL eseguiva un desolante numero di “strip”, Mastino disse:
“Speriamo che il prossimo numero sia meglio... Uh!... Dove diavolo s’e cacciato quel mona di Patata?”

Tre sfigati in Svezia, seconda tappa Copenaghen

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