Las Vegas

Dreaming California – Parte II

Golden Gate Bridge San Francisco

Periodo: 23 agosto - 6 settembre 2008

7° giorno - 29 Agosto - San Francisco

Ultimo giorno pieno di permanenza nella splendida San Francisco. Parte dell'itinerario odierno è già stato pianificato da tempo: la visita all'isola penitenziario di Alcatraz. Eh già, Alcatraz non è un luogo di interesse turistico da visita dell'ultimo momento, per andarci è necessario prenotare con 10-15 giorni di anticipo, altrimenti si resta bellamente a riva a guardare i traghetti salpare.
Nonostante siamo ormai al settimo giorno californiano il fuso non è ancora smaltito al 100%, complice anche il fatto che la stanchezza ci assale ogni sera e ci manda sotto le pezze relativamente presto. Per farla corta, la visita è prenotata per le 11, ma noi alle 9.30 circa siamo già in zona. Pensiamo quindi di tentare un cambio di biglietti e partire alle 10 o 10.30, ma l'addetto ci ride bellamente in faccia, facendoci rammentare che se anche noi avevamo prenotato con molto anticipo era perchè è sempre tutto sold out. Poco male, facciamo un giro al Pier 39, dove acquisto qualche pacchianeria vacanziera. Alle 10.45 siamo nuovamente al molo 31, e dopo lunghe file e 10-15 minuti di traghetto attracchiamo all'isola.
Non ci sono visite guidate, solo un tizio vestito da ranger che da un pulpito rialzato blatera cose incomprensibili per gli astanti a stelle e strisce. Noi forti del nostro ottimo inglese ma pessimo inglese-americano lo snobbiamo alla terza risata globale, di fronte alla quale siamo rimasti ammutoliti non avendo capito una verga. Ci incamminiamo verso il visitor centre, dove vi consegneranno un'audioguida disponibile anche in italiano. Non ci sono biglietti da mostrare, se sei arrivato sull'isola sicuramente hai pagato il tragitto in traghetto, e questo è sufficiente.
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L'audioguida è un classico tour che ci muove come marionette senza fili dentro i terribili corridoi del carcere, raccontandoci le storie del tempo con le voci di ex guardie e ladri che ad Alcatraz hanno tarscorso qualche anno.

Terribile la visione delle celle 1,5x2x3, dei veri loculi. Del resto anche le persone che le occupavano non è che fossero proprio dei santi, ma non sta a me dare giudizi. Quello che è ineluttabile è che Alcatraz doveva essere un posto terrificante per essere reclusi, oltre che per gli spazi angusti anche per essere posta a poco più di un miglio da San Francisco, con continua frustrazione dei reclusi che vedevano la libertà della grande città a un palmo di naso senza però poterla mai sfiorare. Toccanti i racconti dei reclusi, che narrano di come la notte di Capodanno sentissero tutti i festeggiamenti dalla città senza chiaramente poter prenderne parte, ed altre scene ed esperienze da pelle d'oca. C'è anche un filmino di 40-45 sulla storia del carcere, ma non ne abbiamo approfittato.
In un paio di ore la visita interna ed esterna è conclusa, e ci avviamo al molo per prendere il traghetto del ritorno. Al ritorno altro giro per il centro città con ultimi sprazzi di shopping, la mattina seguente si parte. Per la serata ho prenotato una gita sulla baia al tramonto, regalo di vacanza alla mia bella, ma ce ne succederanno di tutti i colori... Con buon anticipo lasciamo l'albergo per prendere il tram F che ci porterà davanti al pier di imbarco, nuovamente nella zona di Fisherman's Wharf. Attendiamo però buoni 20-25 minuti prima che passi, e ci avviamo a bordo con un filo di ansia. Come raccontavo i bus non sono il top della velocità, ed i tram sono degni parenti. Nota curiosa però: i tram sono ancora quelli donati dall'Italia a San Francisco. Quello su cui salgo si chiama Città di Milano, ed ha tutte le scritte all'interno in italiano.
Anyway, iniziamo il nostro tragitto in tram che prevede Market st e poi la strada costiera.

Dopo pochissimo dalla partenza vedo uno strano assembramento di biciclette passarmi accanto. Non gli do molto peso, ma poco dopo il tranviere tira il freno, e mette le braccia dietro la testa in chiaro segno di resa. Mi volto per vedere cosa ostruisse il nostro passaggio e vedo letteralmente un tappeto di biciclette festanti che travolge la strada... Sono migliaia, forse miliardi. A perdita d'occhio si vedono solo bici con sorridenti rompiballe che invadono Market st costringendo tutti i mezzi alla sosta. In pieno panico da perdita gita chiedo al tranviere se saremmo riusciti a passare; lui mi guarda ridendo e indicando la marea a due ruote mi dice: "What do you think???" A quel punto prendo coscienza che non ce l'avrei mai fatta. Scendo dal tram e comincio a correre come un pazzo per le vie laterali alla ricerca di un taxi.
Un tassista italoamericano, anche lui invischiato nella rete dei ciclisti, capisce che siamo in forte difficoltà, e con modo di fare molto USA salta giù dal taxi e ci dà indicazioni su dove trovare taxi. Non so nemmeno se seguiamo le sue indicazioni, ma poco dopo la fortuna ci assiste e troviamo un taxi libero. Il tassista ci spiega poi che questa invasione di biciclette avviene ogni ultimo venerdì del mese, e pur essendo una bella manifestazione, è un delirio per chi si muove in auto. Comunque ce l'abbiamo fatta, siamo in tempo. Se non fosse che sbaglio a dare indicazioni al tassista, e invece che davanti al molo ci fermiamo mezzo chilometro più avanti... Folle corsa, fiatone fantozziano, ma arriviamo al pontile mentre sta per iniziare l'imbarco! Siamo salvi.
Proprio in quel momento però ci voltiamo verso il mare, e vediamo una nebbia fitta che nemmeno in pianura padana all'alba. Non vedremo mai il tramonto sulla baia...

Ci assale lo sconforto, non sappiamo se ridere o piangere, e tra le due scegliamo un dignitoso mutismo. La barca parte, siamo seduti al tavolo con un'allegra famigliola americana; in pochi minuti siamo nella nebbia totale. Non si vede a un palmo, è tutto surreale. Mentre cerchiamo di farci coraggio la barca esce dal banco di nebbia, e si ancora a largo di Sausalito, dove possiamo godere del tramonto. Certo, non è il previsto tramonto sull'oceano dietro al Golden Gate, ma guardando in quella direzione si vede una specie di location da libro di Tolkien, meglio starne lontani.
Cale il sole, si apre il buffet, un ottimo cantante suona un misto pop-folk accompagnandosi con la chitarra. Passiamo come promesso sotto al Golden Gate. E' notte ormai, e c'è moltissima nebbia. Il risultato è vedere le luci del ponte molto soffuse tra la nebbia; pensare che si è in mare aperto, al buio, con la nebbia fittissima, sotto un mostro di acciaio gigantesco, è molto suggestivo, e un filo angosciante. Si rientra al molo, la gita è terminata. Per tornare in albergo ci concediamo un taxi. Per fermarlo basta un cenno della mano. Si accosta a noi un cinese, la sua compagnia di taxi si chiama "Fog city". Quando si dice il destino.
8° giorno - 30 Agosto - Da San Francisco a Yosemite

Svegliarsi presto ormai è una consuetudine, ma questa mattina ha anche un fine preciso: andare il prima possibile a ritirare la nuova auto e partire per Yosemite. Alle 7.30 sono già a fare colazione, e poco dopo esco per tornare in O'Farrel st. Freddo boia, la nebbia che incornicia gli ultimi piani dei grattacieli fa pensare all'autunno.
La macchina è prenotata per le 11, ma alle 8 sono già in fila alla National per il ritiro. L'ufficio è lo stesso di quello della Alamo dove ho restituito la Pontiac, del resto sono la stessa azienda.

C'è molta gente in fila prima di me, al punto che non entriamo tutti nell'angusto ufficietto, e siamo costretti a rimanere fuori con vento che sferza la faccia. All'arrivo del nostro turno la doccia fredda: non ci danno la macchina. Cioè, ce la daranno, ma non prima delle 11. L'addetto ci spiega che O'Farrell st è solo un punto di smistamento, non un deposito delle auto, pertanto non hanno ancora la nostra disponibile. Glie le portano a slot di 10 macchine per volta, e la nostra arriverà non prima delle 10.30

Usciamo con le pive nel sacco e ce ne stiamo buoni 10 minuti a smaltire l'arrabbiatura al freddo. Il problema è che questo ritardo non calcolato ci farà perdere una marea di tempo nella visita di Yosemite, per cui abbiamo solo due mezze giornate. E Yosemite è a 4 ore di macchina da San Francisco. C'è poco da fare comunque, facciamo un piccolo giro per le vie del centro e poi torniamo in albergo, almeno ci salviamo dal gelo. Alle 10.40 siamo di nuovo dalla National, e verso le 11.15 entriamo in possesso della nostra auto. Quella destinata a noi è ancora in fase di lavaggio, quindi per non perdere altro tempo ne prendiamo una già disponibile di livello superiore, pagando circa 10$ al giorno di differenza. E' una bella Chrysler Sebring, un comodo macchinone che ci scarrozzerà per il resto della vacanza.
Partiamo, direzione Yosemite. Unica sosta prevista il 1200 di Park Ave, ad Emeryville. L'indirizzo non vi dirà niente, si tratta della sede della Pixar, la nota casa di animazione 3D. La mia ragazza è una superfan, e non le posso negare una foto davanti all'ingresso. Del resto si tratta di una deviazione di 5-10 minuti totali. La tappa successiva è il pranzo, poi diretti al parco, dove entriamo verso le 16.30, con il sole già in fase calante. Non mi dispiacerà però quest'orario, in quanto ci regalerà dei colori e delle vedute da sogno.

Ci fermiamo subito ad ammirare El Capitan, gigantesco monolite di granito che si staglia sulla zona centrale del parco. Proseguiamo poi ad esplorare in auto ed a piedi le zone limitrofe, tra ruscelli popolati di famiglie che squagliano i marshmallow sul barbecue e scoiattoli che sgranocchiano allegramente ghiande. I paesaggi si susseguono meravigliosi, peccato solo per il periodo che ha reso tutto secco e arido. Le copiose cascate che si vedono nelle foto sono completamente asciutte, di cime innevate chiaramente manco a parlarne. Cerchiamo anche una zona specifica, un laghetto probabilmente di altura, scenografia di molte foto. Lo chiediamo nello specifico al visitor centre, ma sebbene non sicuro al 100% il tizio ci indica una zona raggiungibile solo con 24 ore di trekking. Sarà per la prossima vita.
Iniziamo a dirigerci verso l'hotel per la notte, sebbene sia sempre nel parco sono circa 50 km di distanza. Nel percorrere la strada vediamo paesaggi da bocca aperta, e più volte ci fermiamo per scattare foto su foto. In particolare su una curva si apre una vista meravigliosa, con un laghetto contornato da montagne monolitiche superbe. Il sole calante rende poi tutto più magico. Decine di foto di tutti i tipi, e poi ci sale il dubbio... Ma non sarà che... E' lui! E' proprio lo scorcio visto e rivisto ovunque! Siamo di fronte alla foto principale della nostra seconda guida (National Geographic), resa quasi irriconoscibile dalla mancanza di neve, nuvole e dalla poca acqua, ma è proprio lei! (Tra l'altro si tratta anche della foto posta in alto a destra del link di Wikipedia) Fieri di questa scoperta continuiamo il percorso, fermandoci di nuovo a Tunnel View. Siamo iperfortunati, in quel punto parcheggiare la macchina è praticamente impossibile, ma complice l'orario ci sono solo alcune decine di persone, e riusciamo a godere della vista iperbolica.
Dopo l'ultima sosta per godere del definitivo tramonto facciamo tutta una tirata sulla Wawona road, per arrivare all'omonimo hotel.

Ormai è buoi pesto, e l'hotel si fa desiderare. E' sicuramente su questa via, ma non si sa a che punto dobbiamo arrivare. Non lo sa nemmeno il navigatore, che di questa strada ha punti di riferimento molto vaghi. Dopo molte miglia appare prima un campground, e poi finalmente il Wawona Hotel (142$ per un letto double senza bagno).
La struttura vittoriana è fantastica, e dopo il tragitto al buio pesto dal parcheggio all'hotel prendiamo possesso della nostra stanza. Scopriamo che oltre ad essere senza bagno, come previsto, è anche senza finestre, senza spazi e senza buon odore... Un loculo insomma. E' per una notte, passerà presto. Decidiamo però che non è il caso di passarci più di tanto tempo, quindi per prendere sonno scendiamo al piano terra dove nel patio bianco latte prendiamo un bel dolce, godendo del fresco serale e dello spettacolo delle stelle. C'è anche un pianista che suona, per la gioia degli avventori più attempati, ed un ristorante dall'aspetto sciccoso.
La serata si conclude con un mezzo brivido: dopo una mezz'ora che eravamo in stanza sentiamo bussare. Alla porta è un signore cinese, probabilmente dipendente dell'albergo, che mi rende il mio borsello, tra la mia incredulità e le ingiurie che mi tira la mia ragazza. Dalla stanchezza non mi ero assolutamente accorto di averlo lasciato sul tavolo del patio... Del resto dentro c'erano solo soldi, carte di credito, passaporto, carta di identità, patente, cellulare, occhiali, ecc. Chiaramente non manca una virgola, e dallo stupore non ho avuto nemmeno il pensiero di dare una mancia al tizio che me lo ha reso.
9° giorno - 31 Agosto - Da Yosemite alla Death Valley

La stanza del Wawona Hotel non è certo il massimo, soprattutto per l'assoluta mancanza di finestre. Quindi appena svegli ci prepariamo e precipitiamo giù per la colazione. L'atmosfera del mattino è completamente diversa da quella della sera: con la luce si ammira la meraviglia di questo posto, immerso nella natura e lontano dai rumori della vita cittadina.

La colazione è servita nel ristorante, ed è di livello eccelso. Il ristorante è molto ben curato, ed ha pareti ricoperte di immense finestre che permettono di godere della vista della foresta che ci circonda. Per la prima volta troviamo non solo dolci zucchero&burro, ma tutto ciò che in Europa si intende per colazione continentale, e tutto di qualità super. Stamattina 5.000 calorie non me le leva nessuno.
E poi si riparte, ma non prima di aver documentato con foto l'alzabandiera mattutino davanti l'hotel: mentre un ragazzo tira su la Stars&Stripes un ranger fischia (nel senso di "suona") l'inno americano con tanto di mano sul cuore. Intorno gli americani sono tutti fermi sull'attenti, e poi ci sono io che faccio foto e un paio di giapponesi che al solito ridono.
La mattina inizia con la visita alla foresta delle sequoie, la Mariposa Grove, dove dopo quasi un miglio di sentiero conosceremo il Grizzly Giant, una sequoia alta come un palazzo di 20 piani che ha dei rami che somigliano a delle querce giganti... Molto suggestivo vedere sul sentiero una sequoia caduta ed adagiata sul terreno: l'area occupata dalle sue radici ormai esposte la potete osservare in questa foto (non sono io, l'ho rubata in rete).
Dopo una buona ora di macchina arriviamo al Glacier Point. Se andate a Yosemite non fatevi spaventare dalla distanza; andate senza indugi al Glacier Point perchè da lì godrete della vista più spettacolare che il parco possa offrire. Siete "praticamente ad altezza d'occhio con l'Half Dome (cit. Lonely Planet) e potrete osservare quasi a 360° la magnificenza di questo parco. Peccato di nuovo per l'aridità del periodo che ci nega la maestosità delle cascate, ci accontentiamo solo di qualche rivolo che cade dalle Nevada e Vernal Falls. Se però vorrete fare foto armatevi di pazienza, è talmente affollato che avere l'orizzonte libero è un'impresa.

Riscendendo giù iniziamo la lunga traversata verso la Death Valley. Sono quasi 300 miglia, e per uscire dal parco ci attende qualche ora di stradine. Dobbiamo passare il Tioga Pass, che ci permetterà dall'altezza dei suoi 3.000 e passa metri, di valicare la Sierra Nevada, per poi lanciare in discesa nella valle. La strada per il passo è come al solito meravigliosa (avete tenuto il conto di quante volte ho usato questo aggettivo nel resoconto???), e segnalo in particolare il Tenaya Lake, lago montano di un azzurro cielo impressionante. Oltrepassato il Tioga Pass ci lanciamo in una discesa lunghissima. Aver saputo prima che le marce 3 ed 1 erano le ridotte avrei salvato i freni, che a fondo valle puzzavano come Franchino di Fantozzi.
La strada che conduce verso la Death Valley è la US-395, affascinante corsa sempre dritta lungo il fianco della Sierra Nevada, di cui potrete tra l'altro osservare il Mont Whitney, altura più elevata degli Stati Uniti continentali. Dopo alcune ore lasciamo la US-395 per entrare nella 136, in seguito 190. Da quel momento non incontreremo più una sola macchina nella nostra direzione, solo 4-5 nel senso opposto in 50 miglia. Unica attrazione un serpente (a sonagli?) che ci attraversa la strada.
Poco dopo siamo davanti al cartello Death Valley National Park. Poco oltre quel punto si inizia a scendere, e più si scende più cala la temperatura. E più il clima si fa secco. E più le fauci si seccano. Passate molte miglia di nulla lunare da una curva spunta il Panamint Springs Resort, angolo di deserto riscoperto motel-pub-benzinaio-market, luogo facilmente assimilabile a miraggio, ma reale punto di ristoro dei viandanti. La stanza che abbiamo noi è per 4 (costo 105$), e dopo una rinfrescata usciamo al pub per bere qualcosa e godere del tramonto nel deserto. Il motel è al completo, quindi seduti con noi ai tavolini all'aperto del pub ci sono altre 15-20 persone.

Bevendo birra (il posto ne ha oltre 100 diverse!) e leggendo sulla guida locale tutti i modi in cui la valle ti può uccidere, resistiamo finché il clima secchissimo non ci consiglia una cauta ritirata in stanza.
10° giorno - 1 Settembre - Dalla Death Valley a Las Vegas
La sveglia all'alba ormai è una consuetudine, e questa volta è anche voluta. Quando apro gli occhi sono nemmeno le 6.30, ma decidiamo che è meglio mettersi in marcia in modo da evitare il caldo torrido. Le raccomandazioni su come affrontare la valle della morte ci hanno spinto ad un iper prudenzialismo, quindi già a Roma ci siamo procurati delle taniche di plastica morbida da riempire di acqua. Carichiamo quindi la macchina con circa 30 litri di acqua pro radiatore, più quasi 3 galloni di acqua da bere...


Proviamo a riconsegnare le chiavi al market (a proposito, è lì che si fa il check-in per il motel!) ma è ancora chiuso. Però il ristopub è già aperto, e a quel punto non possiamo negarci una prima colazione sui tavoli all'aperto con vista dell'alba sul deserto. Il cibo non è il top e costa più della media, ma quella colazione rimarrà uno dei ricordi più belli di tutto il giro.
Si parte quindi alla scoperta della famosa valle della morte, uno dei luoghi più caldi della terra e con meno umidità in assoluto. Basti dire che la sera prima all'arrivo ho preso al market un foglio che stampano ogni giorno con le condizioni meteo e stradali della valle. il bollettino riportava un totale di precipitazioni dall'inizio dell'anno pari a 0,02 mm. Percorriamo molte miglia valicando dossi su dossi, con salite che mettono a dura prova i motori delle auto, tanto che ad ogni scollinamento è presente un serbatoio di acqua da utilizzare nel caso in cui il vostro radiatore stia facendo i fuochi d'artificio

Passando per le dune di sabbia, arriviamo a Stovepipe Well, dove ci fermiamo al punto dei ranger per pagare il biglietto di ingresso al parco.

Diversamente da Yosemite, dove ad ogni strada di ingresso è presente un gabbiotto dove pagare obbligatoriamente il ticket, a Death Valley non hanno avuto il coraggio di costringere un ranger a passare intere giornate in uno stanzino di mezzo metro quadro a ritirare pedaggi, pertanto sta al buon cuore di ognuno fermarsi e pagare. E' obbligatorio, ma se non lo si fa al 99% non se ne accorgerà nessuno. Per la cronaca sia a Yosemite che a Death Valley il ticket di ingresso costa 20$ per auto, e dura 7 giorni.
A Stovepipe c'è un fitto biancore che se non fossimo in un deserto direi essere foschia mattutina, ma qui mi pare poco probabile. Sabbia alzata dal vento? Possibile, del resto anche ieri sulla 395 siamo passati attraverso una vera e propria sand storm, con visibilità bassissima e granelli di sabbia che ticchettavano impazziti sulla carrozzeria dell'auto.
La prima tappa è Salt Creek, corta passeggiata su un pontile di legno per vedere i pupfish, pesciolini che resistono ad un'acqua salata 3 volte di più che quella naturale del mare. Inutile dire che l'acqua non c'era, quindi il tutto si mostrava come una desolata distesa si sabbia arsa. Proseguendo arriviamo poi a Furnace Creek, il più grande insediamento urbano-turistico della zona, dotato di ranch ed hotel.
Ripartendo da quest'ultimo il fatto che non ti aspetti: nel nulla più totale, in una strada battuta solo da noi, contornata da rocce e caldo, appare nel mio specchietto retrovisore la macchina di un ranger. 3.486 luci accese, sirena accesa. Capisco che è meglio fermarsi. Mi accosto, e in pieno stile Usa abbasso il finestrino e metto le mani sul volante, senza scendere dall'auto. Con un leccapiedismo becero accolgo il ranger con un sorriso a 38 denti e un "Good morning ranger!", a cui lui risponde altrettanto calorosamente e mi comincia a chiedere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, senza però attribuire alcun senso filosofico alle domande.

Alla fine mi dice "You missed my stop sign!" A distanza di 15 giorni ancora ci chiediamo quale cavolo fosse questo stop sign, era difficile non vederlo nel nulla cosmico; probabilmente resterà per sempre un enigma. Mi chiede poi la patente, e lì inizio a sudare freddo. Non ho fatto né la patente internazionale né la traduzione giurata, e per un momento maledico il sondaggio che ho messo su zingarate prima di partire. Sparisce per qualche minuto nella sua auto, e quando torna mi riconsegna tranquillamente la patente, ammonendomi di stare più attento (a cosa?) e graziandomi da una multa per non aver rispettato il suo stop. Probabilmente anche il vedere sul parabrezza il tagliando del pagamento dell'ingresso lo ha rabbonito. Comunque ce la siamo cavata, possiamo tranquillamente proseguire la nostra visita.
Il prossimo punto è Badwater, un immenso catino a 85.5 m sotto il livello del mare completamente prosciugato, e quindi trasformato in una distesa di sale a perdita d'occhio. Sono d'obbligo gli occhiali dal sole, il biancore vi accecherà senza pietà. Dopo un giro per l'Artist Drive, una camminata in auto di qualche miglio in mezzo a rocce dalle forme e colorazioni incredibili, ci avviamo verso le ultime mete. Si tratta di due punti panoramici, lo Zabriskie point ed il Dante's View. Il primo è al livello della strada principale, per il secondo si sale per molte miglia; l'ultimo strappo ha una pendenza tale da consigliare il parcheggio a valle ai mezzi più pesanti, me poi si arriva su una sorta di mega piazzola sul cucuzzolo di un monte da cui si domina tutto il paesaggio sottostante. In entrambi i casi i panorami visti vi ripagheranno della fatica a sopportare il caldo prosciugante. A proposito, parlando del caldo le temperature non sono state per niente impossibili. Stando alla macchina il massimo toccato è di 100 °F (=37,8 °C).

Supereremo questo tetto in altre zone del Nevada e della California, quindi non si tratta certo di un clima insopportabile. La cosa fastidiosa è la secchezza di bocca e naso, ma basta bere molto e passa tutto.
Ci sarebbe altro da vedere nella valle, su tutto lo Scotty's Castle, ma la distanza è molta, e da quanto ho letto non è che ne valga poi così tanto la pena. E quindi lasciamo alle nostre spalle la valle della morte, e iniziamo il viaggio verso la Sin City, Las Vegas. Usciti dalla valle però, arrivati al bivio dell'Amargosa Opera House, invece di girare a destra giriamo a sinistra, dopo aver convinto la mia dolce metà a fare un passaggio per l'Ash Meadows National Wildlife Refuge, riserva per animali selvatici. Sulla strada per arrivarci passiamo il confine tra California e Nevada.
Anche se non ci fossero stati i cartelli ce ne saremmo accorti senza problemi: in mezzo al deserto, 8 metri dopo il confine, alla nostra destra c'era un "saloon and gambling hall" alla sinistra un "hotel and casinò". Benvenuti nel regno del gioco d'azzardo. Presi dalla fame decidiamo di fermarci al saloon per mettere qualcosa sullo stomaco. Entriamo in un similbar disseminato di slot machines, completamente deserto nella calura del primo pomeriggio, con il neo proprietario che ci fa le feste come un cagnolino quando il padrone torna a casa, un avventore all'angolo del bancone che trangugia birra, un ventilatore a tutta manetta che smuove l'aria calda, e un suggestivo immenso uomo buttato a terra a braccia larghe davanti al palco del contiguo locale per gli spettacoli. Più tardi il padrone del bar ci dirà che si tratta di un francese ancora ubriaco dalla sera precedente. Per stazza, posizione, fisionomia e stato etilico per un attimo ho avuto l'impressione di essere al cospetto di Barney Gumble.

Il saloon non offre purtroppo cibo, solo dei paninacci di Wal Mart congelati e scaldati al microonde. Stiamo per andarcene, ma non possiamo spezzare il cuore al padrone festante per i due inattesi clienti, quindi restiamo e trangugiamo due pezzi di copertone di tir conditi con salsa di mastice. Il mio stomaco a tutt'oggi sta per finire di digerire quel lauto pasto.
Riprendiamo la via per l'Ash Meadows, che con mio sommo disappunto è un pezzo di deserto con zero fauna visibile, se non per un nuovo serpente che ci taglia la strada. Il resto del viaggio per Las Vegas è solo deserto e asfalto, da cui emerge dietro una curva una immensa città. Pensavo che Las Vegas fosse solo un piccolo borgo nel deserto per giocatori incalliti, scoprirò avere invece circa 1,2 milioni di abitanti. La periferia è tutta in costruzione, si vede che la città è in forte espansione, e dopo esserci liberati dei 30 litri di acqua pro radiatore (per fortuna inutilizzati), imbocchiamo Las Vegas Boulevard, noto anche come lo Strip, ossia il vialone degli alberghi più kitsch del mondo.
Il nostro è il Luxor (in offerta 60$ a notte per due letti double!), nella parte sud dello Strip. All'arrivo consegno l'auto al parcheggiatore che mi dà un tagliando per riprenderla quando ne abbiamo bisogno, e vado dentro per il check-in. Ho visto aeroporti con meno banchi check-in del Luxor, ce ne saranno 20 allineati, con tanto di tensor per disciplinare la coda. Otteniamo la stanza 19108 (diciannovemilacentootto!!!), all'angolo del 19° piano. L'ascensore in realtà si chiama inclinatore, di fatti quando parte ti senti sbattuto verso un angolino dello stesso. Le stanze sono disposte lungo del pareti della piramide, pertanto ogni piano ne ha meno del precedente, ed il corridoio delle stanze è aperto sull'interno cavo della piramide. Uno spettacolo da vertigini.
La stanza è enorme, anche se la vista dalla parete a vetri inclinata è rovinata dalle torri del Luxor da poco costruite.

Devo dire la verità, dopo 2 giorni di natura, silenzio e spazi sterminati a disposizione, Las Vegas mi disturba molto a primo impatto. Mi sento quasi violentato da questa prorompenza di luci e suoni, ma presto mi abituerò e resterò stregato da questa città assurda.
Più tardi scendiamo per la prima ricognizione, e iniziamo subito perdendo qualche dollaro alle slot (io) e vincendone alcuni (la mia ragazza). Al calar del sole facciamo una passeggiata per lo Strip, a godere dello spettacolo delle luci di Las Vegas. Niente di più lontano dalla colazione di poche ore fa alla luce del primo sole nella Valle della morte, ma anche questo a suo modo ha fascino.
Lo spettacolo di luci non si descrive, è un susseguirsi di lampadine (miliardi) che si accendono e spengono. Anche McDonald qui si è uniformata: l'insegna classica è sostituita da uno sfavillante brilluccichio di lampade gialle e rosse. Camminiamo a lungo, vedendo ricostruzioni di New York, dell'antica Roma, di Parigi, del lago di Como, di Venezia, ecc. ecc. E' tutto enorme, tutto sfavillante, tutto artatamente finto per sbalordire le folle di turisti. Arriviamo fino al Bellagio, e godiamo del suo famoso spettacolo di fontane; perdiamo qualche altro dollaro al Ceasar Palace, e per oggi ne abbiamo viste abbastanza, si va a letto dentro la piramide.

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